Sono io la risposta sbagliata a ogni mia esigenza. Non mi perdono la procrastinazione. Il resto di me l’accolgo e lo coltivo. Ogni mia stortura e debolezza ha un canale privilegiato su tutte le mie qualità. Ho sempre detestato chi si definisce complice di se stesso, ma chi disprezza compra, e io compro benissimo.
Mi sono complice. Indefessamente. Inderogabilmente.
Sento il dovere di difendermi da tutto e da tutti, ma quasi mai da me stesso. Mi sopravvaluto. Potrebbe essere. Temo per la mia incolumità ogni giorno. L’unico torto che mi faccio è il tabagismo. Escluso questo avvelenamento lento, mi prodigo alla conservazione.
Riesco a concedermi la bellezza, la scelta, il piacere. Talvolta pure il dolce far niente. Eppure, avanzo dentro di me per paralogismi, a gamba tesa, e finisco querulo davanti ai fallimenti.
Dura pochissimo, in ogni caso. Nessuno sa consolarmi meglio di come faccio io. Solo mia madre sapeva trattenermi tra le braccia allo stesso modo in cui cullo me stesso.
Come Leduc, sono un deserto che monologa, ma a differenza sua non me ne lamento. Mi ascolto volentieri. Condivido il suo bisogno di essere ascoltato. Non che mi stanchi di parlarmi, però vorrei orecchie diverse a cui condurre le mie parole. Si scrive per questo, no?
Immagino sia per un bisogno di eterogenia. Intendo la teoria köllikeriana.
L’esistenza del singolo essere non è un riflesso stesso dell’evoluzione della specie? Una rappresentazione limitata nel tempo dei cambiamenti macroscopici? Kölliker ha ragione: spinti dal perfezionismo, progrediamo in modo discontinuo. O forse davvero mi sopravvaluto e non correggo il difetto per trattenere la mia unicità.
Sono sempre presente a me stesso anche quando, la notte, mi fermo con la mente sul comodino, tra un pensiero impuro e il sogno di grandezza.
Ho diari per ogni mia cronaca. E sono così megalomane che li ho battuti a macchina. Sono i libri che non mi vengono pubblicati. Sono la penna inascoltata.